LA QUESTIONE DEI CAVALLI E LA SOLUZIONE INEFFABILE
Se si cercano libri diversi, narrazioni eccentriche, un veleggiare a vista e non troppo programmato, ecco che arriva a puntino La questione dei cavalli di Arianna Ulian. Talvolta basta un’idea di base, eccentrica fino al midollo, per cambiare il destino di un romanzo – sempre che si riesca a scriverlo. In questo caso l’idea balzana/originale di un famoso regista hollywoodiano di girare un western a Venezia, idea già di per sé induttrice di un bel sollevamento di sopracciglia, fa da detonatore a una storia che però non esplode, ma implode in maniera parossistica, una storia freneticamente immobile, che produce tensione e tensione e tensione.
Dovessimo identificare un vero protagonista, non lo troveremmo: né umano né animale (i veri protagonisti sono l’odore, la luce opaca, i rumori ovattati della laguna) perché più o meno tutti assumono un’aura di protagonismo che evoca il coro, ma non il coro greco alle spalle dell’eroe, quanto piuttosto l’onda di una ola emotiva a cui tutti devono partecipare.
Iniziano le maestranze del film, a cantare lo spartito della vivacità e dell’emozione; poi però arriva Momo a creare disagio, un ragazzino verosimilmente autistico che elabora una sua ossessione senza sapere che ha ragione; poi i cowboy inventati dalle comparse veneziane, che riproducono un clima di violenza e sopraffazione immotivati che sembrano molto universali; e le voci forse tangenti ma molto colorate che drappeggiano la storia si moltiplicano pagina dopo pagina, creando la comunità del disagio che ispessisce la narrazione, e oserei dire senza pietà.
In un libro siffatto la non-linearità della narrazione, la frammentarietà e il moltiplicarsi dei set (guarda caso) potrebbero preludere, alla lunga, a una certa stanchezza, la ripetizione può diventare stucchevole, e far sbuffare. Qui, mai. Perché ogni singolo tassello del puzzle che va (lentamente) a posto non apre a una soluzione, quanto piuttosto a un nuovo malessere. E qui spendo un gran nome: Patricia Highsmith (e per me è un gran complimento), maestra dell’immobilità furiosa, e della tensione senza scampo.
Questa qualità la apprezziamo soprattutto quando Arianna ci introduce alla sospensione della realtà, quasi oniroide, che c’è su un set cinematografico, che però è anche quanto di più pragmatico, tecnico, pieno di aggeggi e aggeggini che ci sia. E quando ci fa capire come si possa far assurgere a una metafisica anche il più scontato dei problemi amministrativi, come quello per esempio di un trasferimento di cavalli. Brava, bravissima.
Il tutto è magicamente annaffiato dallo stile, elegante, ricercato, poetico, ma mai scostante, o presuntuoso: “…è piuttosto girare attorno alle cose come fossero branchi di prede e poi individuare il varco e poi.” Questo reiterare il poi senza un vero arrivo è più che mai una dichiarazione di stile. Associando poi perle preziose a tutto spiano: un corpo guidato dalle ossa, che arrivano sempre prime; un rosa pelle, l’orribile colore delle bambole esangui e delle nuvole nei bigliettini pasquali – e via impreziosendo.
In sostanza un libro tra i libri che cercano qualcos’altro, magari non sanno neanche cosa ma altro, non la solita linea ma l’arabesco, e più gli interstizi che la via maestra. Fascinazione da scaldare le ossa, mistero da pungere il cervello: una vera rarità.
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